Agrocomunicatore cercasi
Riflessioni a margine dell’iniziativa “Comunicare e valorizzare il prodotto agricolo”

Lo scorso 9 maggio, la Casa dell’Agricoltura, associazione impegnata ad animare e sollecitare il vasto pubblico della citta di Milano sui temi dell’agricoltura, ha organizzato un incontro sul rapporto tra agricoltura e comunicazione. Questa iniziativa, insieme a molte già proposte e altre in calendario, era inserita tra i momenti di accompagnamento all’appuntamento conclusivo degli Stati generali dell’Agricoltura, evento previsto a inizio 2020. Nella stessa settimana si è svolta la “Milano Food Week” e a distanza di pochi giorni, sempre a Milano, alla Fabbrica del Vapore, “Cibo a Regola d’Arte”. Momenti che hanno visto la presenza di importanti interlocutori, tra i quali la stessa presidente della Casa dell’Agricoltura, Claudia Sorlini.
Quindici giorni per abbuffarci di cibo e dintorni.
Onestamente non siamo informati sulla partecipazione ai singoli momenti, sappiamo solo della presenza il 9 maggio: sala piena, relatori competenti, riscontri positivi. Abbiamo ascoltato chi ci ha raccontato di impresa cooperativa, valore dei prodotti e sostenibilità (Granarolo), chi ha affrontato il rapporto tra le produzioni territoriali e l’identità (Musei del Cibo), chi ha elargito consigli su come utilizzare gli strumenti che la rete ci mette a disposizione (Google), chi ha parlato di educazione alimentare nella scuola e in famiglia e chi, infine, ha mostrato quali canali vengono utilizzati dalle organizzazioni degli agricoltori per fare conoscere il mondo delle imprese agricole (Arga).
Potremmo dire: tutto perfetto! ma … dov’erano i comunicatori? I comunicatori presenti saranno stati una decina, e poiché non esiste una riflessione che giustifichi questa scarsa partecipazione, tentiamo di formulare qualche ipotesi di merito.
Una breve premessa. Abbiamo due tipologie di professionisti delle relazioni con il pubblico. Professionisti che spesso si scambiano di ruolo interpretando, in funzione delle necessità, a volte il mestiere di chi informa, altre volte quello di chi comunica.
Da una parte i giornalisti – che scoprono (sempre meno) le notizie, ricevono informazioni da altri (sempre di più) e talvolta scrivono sui loro giornali, Tv, radio, rete…
Dall’altra, chi comunica per conto di qualcun altro e che cerca – provando a superare il rumore di fondo sempre più assordante – di avere visibilità sugli strumenti di informazione, oppure nel mercato, per vendere di più.
Da Expo in poi, soprattutto a Milano, assistiamo con una regolarità impressionante a iniziative ed eventi che affrontano i temi del cibo e della sostenibilità, spesso proposti anche in una relazione diretta. Gli interlocutori sono diversi: istituzioni come il Comune o la Città metropolitana, l’università e la ricerca, il mondo del volontariato, l’associazionismo giovanile, l’ambientalismo e altro ancora. Sforzi indirizzati a modificare, da un lato, i modelli culturali di cittadini e famiglie e, dall’altro, con l’obiettivo di valorizzare gli impegni delle imprese nel campo della responsabilità sociale, tutti attenti a dare un contributo al benessere individuale e collettivo.
Il mondo della comunicazione, per serietà professionale verso i propri clienti, contribuisce con impegno a queste finalità ma non sempre interviene sugli aspetti di fondo che questi contenuti richiederebbero. Cioè, se l’aria che respiriamo è impregnata di cibo e sostenibilità, allora parliamo di questo poiché è di questi argomenti che ci viene chiesto di occuparci. Analisi, senso critico, responsabilità professionale sembrano qualche volta aspetti di secondo piano.
Ora non vogliamo assolutamente dire che l’intera nostra categoria, della quale fa parte anche chi scrive, affronta con superficialità queste tematiche. Abbiamo esempi virtuosi di colleghi e società che da anni, per scelta strategica e volontà sociale, si impegnano per affermare le necessità di cambiamento e per valorizzare esperienze largamente positive da suggerire come modelli. Resta il piccolo dubbio che se cibo e sostenibilità non fossero – e passateci la provocazione – argomenti “modaioli”, la comunicazione si occuperebbe volentieri d’altro.
Cercheremo, forse in modo superficiale, di giustificare tale affermazione.
Partiamo dal cibo.
Se i giornali – parliamo dei quotidiani – hanno praticamente abolito le pagine e gli spazi per le notizie relative al mondo agricolo, è perché da quella parte i soldi non arrivano (pubblicità) mentre in compenso leggiamo sempre più di cibo, chef, ricette, cucina, ristoranti e amenità varie. E dato che le tendenze possono essere pianificate a tavolino, noi comunicatori realizziamo campagne architettate ad hoc, immaginando che se oggi facessimo un sondaggio rapido tra i cosiddetti cittadini “medi”, per chiedere loro se preferiscono che si parli o si scriva di sostenibilità e di qualità nei prodotti agricoli o, in alternativa, della ricetta del risotto di questo o di quello chef, sappiamo tutti quale sarebbe il risultato.
Gli editori devono far tornare i conti. Punto.
Di contro, se non esistesse questo paradossale interesse per la cucina, oggi non saremmo qui a parlare di alimenti e, di conseguenza, di biologico, di sana alimentazione, di km0, di stagionalità, di spreco. Ma questo, nel migliore dei casi, perché si parla tanto di cibo prevalentemente come consumo.
Quando invece ci occupiamo di sostenibilità, cerchiamo di dare senso a espressioni come economia circolare, raccolta differenziata, produzione ecosostenibile, mobilità sostenibile, come risposte a un nuovo senso comune generato dalla preoccupazione diffusa di un mondo che non riesce più a difendersi dai propri errori.
Ma se ci occupassimo di comunicazione per una multinazionale del petrolio, diremmo che il greggio ammorba il mondo e che è necessaria una riconversione verso le soluzioni verdi, verso i motori elettrici, verso quelli a idrogeno?
Ripetiamo: molti di noi operano con impegno e serietà su questi argomenti e a loro va il merito non solo che se ne parli, ma che si possa fare affidamento – e anche qui esprimiamo considerazioni generiche – su esperienze di fondamentale valore, come ad esempio la lotta allo spreco di cibo e le azioni di educazione alla necessità di differenziare i rifiuti.
Eppure esiste un atteggiamento da parte dei comunicatori che tende a rimuovere problematiche di carattere sociale un tempo determinanti per l’opinione pubblica.
Da quanto tempo – sempre per fare un esempio – ci troviamo a commentare una nuova campagna su anoressia, bulimia o obesità? Oppure abbiamo letto articoli e analisi su questi argomenti? E non abbiamo detto da quanto tempo non ci occupiamo più, noi comunicatori, di questi temi. Perché forse non rappresentano più un problema sociale o perché non fanno più tendenza? Diamo per scontato che un senso critico diffuso ci immunizzi dal considerare i “giochetti” tipo Master Chef semplici momenti di intrattenimento e non, come sappiamo bene, una pericolosa modifica dei modelli culturali?
Aggiungiamo un’ultima considerazione che è poi una semplice domanda: cosa rispondiamo ai giovani studenti, che scendono in piazza per dare sostegno alle preoccupazioni di Greta sui destini del mondo, quando ci accusano, come adulti, di essere responsabili di questa situazione? E noi come comunicatori dobbiamo assumerci qualche responsabilità in tale senso?
Non vogliamo aprire un dibattito sulle responsabilità etiche della nostra categoria perché non è il contesto giusto né siamo noi a dover esprimere giudizi di valore sui colleghi. Ci poniamo però un quesito: perché chi di noi è anche giornalista rivendica il rispetto della professione verso blogger e animatori della rete in virtù della deontologia professionale e, indossando la casacca del comunicatore, non si pone i medesimi riguardi?
E allora, dopo questa considerazione, dove vogliamo arrivare? Prima di immaginare una proposta forse è meglio ripartire da dove abbiamo iniziato, cioè dall’agricoltura.
Il successo degli chef e delle trasmissioni tv dedicate alla cucina e al cibo, l’ingresso nel mercato italiano dei “novel food” e la diversificazione delle scelte alimentari (vegani, vegetariani, gluten free ecc…) ci mette di fronte a una nuova era della comunicazione alimentare. Si impone perciò la necessità di una revisione dei modelli di consumo che tenga conto delle esigenze che nascono da un mondo globalizzato, quali la trasparenza sull’origine e le modalità produttive, la chiarezza sugli effetti che i nuovi cibi hanno sulla salute, soprattutto se non fanno parte della cultura alimentare, fino alla definizione di nuove categorie di prodotto.
Oggi è necessario avere un quadro chiaro di come si è evoluta la comunicazione del cibo e, di conseguenza, i nostri gusti. Ad esempio, esiste una crescente domanda d’informazione dei consumatori su come le etichette siano diventate dei veri e propri media che rispondono principalmente a questo bisogno.
Ma se informazione e comunicazione invadono le nostre case su argomenti legati alla cucina, occorre rivedere alcuni modelli distorti e riconsiderare il valore che diamo agli alimenti e alla loro origine.
Esiste una generale visione dell’agricoltura che non corrisponde alla realtà. Oggi le imprese agricole non si occupano solo di produzione, ma hanno un ruolo ben preciso nella tutale del suolo, del paesaggio e delle acque, contribuiscono a una diversa pianificazione territoriale che considera ambiente e sostenibilità elementi inscindibili dello sviluppo, aiutano la ricerca e tutti i processi innovativi, favoriscono occupazione impegnata in tutta la filiera dell’agroalimentare, prestano attenzione all’occupazione giovanile e femminile, si occupano di didattica, hanno una funzione commerciale propria nei confronti del consumatore, rappresentano una spinta eccezionale per il turismo.
Una decina di anni fa abbiamo cominciato a considerare seriamente il cibo un valore: la scarsità ci aveva messo davanti agli occhi il rapporto sempre più precario tra domanda e offerta. Nel 2050, le risorse non sarebbero riuscite a sfamare un pianeta di 9 miliardi di abitanti e non si trattava solo di quantità ma anche di una crescente domanda di qualità del cibo. Biologico, benessere animale, equo e solidale, sostenibile: tutti attributi che oggi influenzano significativamente i comportamenti di acquisto. La componente agricola rappresenta spesso il cuore di questa nuova prospettiva, in quanto cerniera tra territorio, mondo della produzione e mondo del consumo. Inoltre, gli studiosi hanno cominciato a considerare determinante il ruolo dell’agricoltura nella lotta ai cambiamenti climatici. Dovrebbe essere chiaro a tutti cosa la presenza dell’agricoltura fornisca in termini di equilibrio ambientale, paesaggistico e territoriale.
Gli investimenti pubblici o privati in agricoltura sono significativi e sono accompagnati da una logica produttiva fortemente connessa con la sostenibilità. E l’innovazione è strumento per la ricerca di sempre più moderne soluzioni produttive e contemporaneamente mezzo per analizzare i bisogni.
Infine non bisogna dimenticare che, in Europa, in particolare, le misure di natura ambientale occupano oggi uno spazio superiore al 30% dell’intero budget dedicato alla politica agricola comune (PAC). Ma non stiamo parlando di massimi sistemi, anzi esiste un recente rapporto di Eumetra che ci segnala come il tema della sostenibilità sia noto a quasi il 50% dei cittadini milanesi, una platea decisamente significativa.
D’altro canto lo stesso sistema, di cui l’agricoltura rappresenta il cuore, stenta a trovare forme che riescano a comunicarne il valore e sottolinearne la ricchezza.
L’agricoltura ha saputo adeguarsi alle modificazioni intervenute nelle tecnologie e nelle mutevoli necessità del suo mercato di riferimento, ma stenta a presentare strategie di sviluppo del suo sistema di avvicinamento al cliente.
Inoltre la diffusione del digitale – che rappresenta oggi un vero e proprio cambiamento di paradigma della comunicazione – non è stata sempre recepita dalle imprese per rimanere competitive e affrontare al meglio le sfide connesse con la complessità crescente dei sistemi sociali e dei mercati.
Il futuro della comunicazione in agricoltura richiede nuove regole senza le quali si rischia di non essere in grado di affrontare la concorrenza proveniente da realtà più strutturate.
Le competenze e le esperienze maturate da ognuno devono essere condivise e messe a dispo­sizione di tutti in modo trasparente. Non è più tempo di chiudersi all’interno della propria realtà (azienda agricola, struttura tecnica, università, organo di informazione).
Chi produce i mezzi tecnici deve lavorare con maggiore sintonia con gli agricoltori, gli agricoltori stessi con chi opera a monte (tecnici, rivenditori, fornitori) e a valle (mercato, consumatori, GDO).
Informazione e comunicazione devono diventare “servizio”. È necessario rendere applicabile ciò che l’innovazione informatica e telematica mette a disposizione delle imprese.
Regioni, Province, Comuni, Aziende sanitarie, scuole, università, associazioni di categoria e gruppi organizzati, infine, hanno il compito di promuovere attività a favore di una politica nutrizionale che valorizzi i consumi di qualità su larga scala.
Non è difficile, a questo punto, mettere in fila alcuni argomenti degni di attenzione per il mondo della comunicazione.
Se parliamo di sostenibilità economica: le filiere agroalimentari, l’impresa multifunzione, l’innovazione, il lavoro, la ricerca, la sicurezza alimentare. La sostenibilità ambientale ci indirizza verso temi quali il clima, la pianificazione, il consumo di suolo, la difesa del suolo, l’acqua e i boschi. Materie della sostenibilità culturale sono: il paesaggio, il turismo, l’enogastronomia, il Made in Italy, il ruolo delle donne e dei giovani in agricoltura. Infine la sostenibilità sociale ci porta ad affrontare argomenti come l’alimentazione, i comportamenti alimentari, lo spreco di cibo, l’agricoltura sociale, il volontariato.
Molti di questi contenuti sono già oggetto del nostro lavoro e, come detto in precedenza, spesso di un ottimo lavoro, Ma è sufficiente? Pensiamo di non andare oltre?
Bisogna trovare vie alternative per ottenere visibilità, per pianificare campagne efficaci e per avere risultati anche a breve e medio termine. La Rete, in questo, è una piazza formidabile e consente enormi possibilità. Blog, siti, social media, sono armi straordinarie per garantire risultati e successo. Anche alcune testate, più aperte di altre, possono essere sollecitate e coinvolte.
Le considerazioni fatte sulla presenza dei comunicatori all’iniziativa del 9 maggio in fondo ci suggeriscono che è difficile trovare spazio e attenzione verso temi connessi con l’agricoltura, ma poiché riteniamo sia sbagliato darsi per sconfitti, ci facciamo promotori di una proposta.
Come detto la prossima primavera vedrà la realizzazione degli Stati generali dell’Agricoltura, momento di analisi dello stato di fatto ma, soprattutto, occasione per formulare proposte di lavoro. In quella sede i gruppi che si sono costituiti intorno a contenuti specialistici porteranno il risultato delle loro riflessioni come base di discussione per un dibattito che non sia fine a se stesso ma punto di partenza per successive azioni da porre in essere.
Allora perché come Casa dell’Agricoltura non farsi promotore di un gruppo di professionisti che affronti il rapporto tra agricoltura e comunicazione e si candidi, con una propria proposta progettuale, a essere l’attore principale di un dibattito articolato che aiuti noi tutti a misurarci con nuovi contenuti e nuovi mezzi?
Un’occasione – questa – per iniziare da subito a lavorare su un nuovo progetto che tenga conto delle esperienze maturate e che aiuti a migliorare, laddove è possibile, la qualità della professione del comunicatore.

Paolo Bonizzi e Mauro Del Corpo